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La trasmissione culto creata da Red Ronnie conclude un ciclo lungo 25 anni, la musica italiana e mondiale è passata tutta di qua. Capire il Roxy Bar per chi non lo ha mai visto o vissuto non è immediato.
Un millenial o peggio un founder oggi non avrebbe nessun metro di paragone per collegarlo ad un format televisivo attuale a lui noto. Questi ragazzi lo guarderebbero spaesati come chi compra un biglietto per Natale a Miami e si ritrova in una sala dove danno Fellini. Il Roxy Bar oltre al tributo nominale di Red Ronnie all’amico Vasco (che a sua volta omaggiava Buscaglione), si chiama così per lo spirito e l’energia alla base di quell’idea: un luogo di amici, dove si ascoltano storie e tanta buona musica dal vivo.
Poco importa se su quel palco ci suoni uno sconosciuto oppure Simon Le Bon, Pavarotti o Beyonce, la Pausini o Jovanotti. Al Roxy capita e basta, come in un bar. Lì si va non per promuovere un disco o per fare audience, si va perché ci si sta bene. Facciamo quel pezzo insieme? Tu sei emergente e io riempio gli stadi da vent’anni? Chi se ne frega, prendi quella chitarra e suona con me, adesso ci divertiamo.
Non ci sono discografici che storcono il muso, registi che ti dicono di stringere o autori che vietano e suggeriscono temi. C’è quell’elemento poco diffuso che si chiama libertà. Quella di sperimentare, quella di gustare con i tempi giusti, quella di sbagliare. Come nello slow-food, questa dimensione di slow-music voluta e tenuta tenacemente salda negli anni da Red, è un vero movimento culturale, un appiglio salvifico per chi non si è fatto travolgere dall’appiattimento, dalla mercificazione dell’artista usa e getta con due gocce di ketchup sulla testa.

 

Per approfondimenti http://www.optimaitalia.com/blog/2016/12/16/chiude-il-roxy-bar-isola-felice-della-musica-dal-1992-ultima-puntata-domenica-18-dicembre-intervista-a-red-ronnie-video/497630?utm_content=buffera125b&utm_medium=social&utm_source=facebook.com&utm_campaign=buffer