Se a dire che il termine prog oggi non ha più senso è Thomas Waber, fondatore e attuale label manager della Inside Out, etichetta tedesca che da ventitré anni sta scrivendo pagine fondamentali del genere, state sicuri di non trovarvi di fronte all’ennesima boutade a favore di social network: il discografico che ha costruito mattone dopo mattone il prezioso repertorio oggi confluito nel catalogo Century Media sa di cosa parla, e possiede gli argomenti propri di chi non solo conosce la materia, ma la ama davvero. Imprenditore più interessato alla visione artistica che al business – come dovrebbero essere tutti i discografici, ma tant’è – Waber ha concesso a Rockol un’intervista esclusiva nella quale ha fatto il punto sullo stato di salute di uno dei generi ormai diventati parte integrante del mainstream rock contemporaneo, spiegandoci dove ha sbagliato l’industria musicale ai tempi dello streaming, perché una platea di appassionati è il miglior antidoto alla crisi del mercato, perché se la scena italiana vuole tornare agli antichi fasti di PFM e Banco del Mutuo Soccorso deve smetterla di guardare ai Dream Theater, e molto altro ancora. Buona lettura…

 

Quali sono la tua più grande soddisfazione e il tuo più grande rimpianto, in ventitré anni alla guida della Inside Out?

Credo che la mia più grande soddisfazione sia stato riportare il prog sulla mappa discografica, perché quando abbiamo iniziato, nel ’93, non c’erano spazi, almeno nell’Europa continentale: i giornali non ne scrivevano, le etichette non stampavano i dischi, e quando i Dream Theater hanno riportato l’attenzione sul fenomeno, nella prima metà degli anni Novanta, noi abbiamo contribuito a ricreare un canale per fare arrivare questo genere al pubblico. Per me è stato un grande traguardo aiutare una scena che seguivo da ragazzino a crescere di nuovo…

E il rimpianto?

Non credo di averne, perché quando ho iniziato a fare questo lavoro avevo solo diciotto anni, e mi interessava solo fare qualcosa: se impari strada facendo non c’è niente del quale tu possa pentirti. E’ la vita…

Non c’è qualche gruppo che ti dispiace di esserti fatto sfuggire?

Sono stato fortunato, perché ci sono state un mucchio di band che mi piacevano – e mi piacciono ancora – con le quali ho avuto l’opportunità di lavorare: certo, ci sono sempre gruppi coi quali mi piacerebbe lavorare, ma non lo definirei un rimpianto.

In breve, qual è stata l’evoluzione societaria della Inside Out, e – di conseguenza – quella del tuo ruolo?

Abbiamo iniziato nel 1993, poi nel 2002 gli amministratori hanno venduto le quote della società alla Century Media: avevamo un contratto di distribuzione mondiale con la SVP, che però è fallita e ha rilevato le azioni. Dal mio punto di vista, il mio compito è sempre stato quello di lavorare coi gruppi. Sono stato il fondatore, il proprietario e il coordinatore della fusione, ma per me non ha mai significato molto, tutto questo: abbiamo lavorato con la Universal come distributore per cinque anni, quindi sapevamo come ragionano le major. Le cose per noi, almeno riguardo il mercato italiano, sono cambiate davvero quando la Sony ha mostrato reale interesse per questo genere di musica, e questo credo sia un aspetto chiave: trovare persone che condividano il tuo stesso interesse è fondamentale.

Il roster della Inside Out è piuttosto eterogeneo: non c’è uno stile principale che domini il catalogo. Qual è il minimo comune denominatore che cerchi nei gruppi o negli artisti che metti sotto contratto?

Il termine “prog rock” ha perso di significato già verso il 1969: all’epoca ci stava che “In the Court of the Crimson King” potesse essere considerato progressive. Ma dopo il primo album in studio dei King Crimson, no. Credo che la faccenda sia da inquadrare più in termini di atteggiamento creativo, se proprio si vuole parlare di “prog”: si può essere creativi con una chitarra acustica o con un sintetizzatore, e per quanto mi riguarda il resto non ha molta importanza…

Quindi credi che il prog – inteso come atteggiamento, ovviamente – possa avere ancora sbocchi commerciali importanti?

Dipende da come la si vede. Se da una parte adesso è molto più difficile per un gruppo arrivare al successo, senza MTV e tutti i media che c’erano prima – adesso virtualmente tutto può diventare mainstream: gruppi come i Radiohead e i Muse li considero prog. Lo sono, e loro si considerano tali. Non so come funzioni da voi qui in Italia, ma almeno fino a quindici anni fa in Germania il pubblico era molto categorico: questo è prog, questo no. Con l’influenza che nomi come Pink Floyd e King Crimson hanno avuto su questi gruppi tutto è cambiato: oggi leggi le interviste a Thom Yorke o a Matt Bellemy dove dicono che sì, questi gruppi per loro sono stati una grande fonte di ispirazione. Ci sono diverse sfumature di prog, ma possiamo dire con certezza che il prog fa definitivamente parte del DNA del mainstream. Poi immagino che anche qui in Italia ci sia qualcuno che pensando al prog si faccia venire in mente solo la PFM e il Banco del Mutuo Soccorso, d’accordo, ma non lo si può negare: anche i Radiohead e i Muse sono prog...

Leggete qui l’intera intervista pubblicata su Rockol:

http://www.rockol.it/news-661758/stato-salute-del-prog-rock-secondo-thomas-waber-inside-out