Prendo spunto da un articolo pubblicato dall’analista e critico americano Bob Lefsetz, intitolato “Why We’ve Got No Protest Music”; e lo fa partendo da alcuni punti fondamentali come la morte della cultura musicale, in particolare quella hip hop, e l’eccessivo benessere economico di alcune star.
Ho voluto riformulare il concetto aggiungendo, modificando e adattando i punti espressi da Lefsetz al mercato e alla cultura italiana.

 

  1. La TV e i Modà
    Può sembrare troppo facile dare la colpa alla TV e alla band-propaganda dei Modà, ma è anche vero che non possiamo continuare a sottovalutare il potere del tubo catodico. Se viene mostrata quella faccia dell’Italia, basata sugli ideali della celebrità, dell’assenza di contenuto, dell’importanza della carrozzeria (invece che del motore), non possiamo certo lamentarci se poi a Sanremo 2017 ritroviamo Al Bano. La TV ha ancora un ruolo fondamentale nella ‘programmazione’ delle menti meno forti, o di quelle non raggiunte dalla banda larga. Questa propaganda che vuole una musica asservita al potere sta distruggendo l’idea che un artista o band sia i grado di analizzare il presente ed essere in grado di prendere parola per comunicare la propria idea.
    Soluzione: quella che auspicano tutti gli appassionati di musica, ossia persone preparate nei ruoli di direzione artistica delle TV, e non girare la testa appena una band “alternativa” riempie il palazzetto: “Uh, non lo sapevo”.
  2. Mantenimento economico
    Tutto è cambiato negli anni ’70, quando i soldi nella musica sono diventati un fine e non una conseguenza. Da allora la musica è diventata in maniera definitiva un business che adesso è in decisa e infinita contrazione. E’ chiaro che coloro in grado di accaparrarsi una posizione di rilievo non vogliono lasciarla; pensiamo a quale valore culturale, di semplici idee o per la difesa delle minoranze, potrebbero fare artisti-riempi-stadi come Tiziano Ferro, Ligabue o Gianna Nannini. Se questi artisti si schierassero, avrebbero una platea di quasi ¾ del pubblico italiano, ma allo stesso tempo rischierebbero di perderne una parte a causa di idee che potrebbero esser viste come controverse. Il fatto è che la posizione raggiunta è comoda, facile e semplice per riconsiderare tutto: in più aggiungo che questi artisti sono vere e proprie aziende che danno lavoro a decine o centinaia di persone. Hanno anche questa responsabilità.
    Soluzione: Se ci fosse un aiuto a questo tipo di imprese, se fossero riconosciute per il loro valore culturale, potrebbero permettersi di fare qualche rischio in più senza paura di perdere fan/introiti.
  3. Mancanza di una conoscenza storica della nostra cultura
    Negli anni ’70 (scusate, ma è successo tanto in quel periodo) in Italia suonavano pochissime band straniere a causa del clima di terrore che si respirava. Fu il momento degli artisti nostrani, molti ricopiavano, ma altri rielaboravano le proprie radici e le sviluppavano con nuovi linguaggi, ad esempio della progressive o del jazz-rock. Quello è stato uno dei momenti fondamentali della nostra storia musicale, il mondo ci guardava e ascoltava le nostre proposte musicali. Poi negli anni ’80 è finito tutto e abbiamo iniziato a vendere Ramazzotti&Pausini. I ragazzi di oggi, quelli che imbracciano per la prima volta la chitarra, ignorano il profondo valore della musica popolare italiana e forniamo loro modelli pre-stampati con la faccia di Katy Perry, Coldplay o Rihanna. Il risultato è una fotocopia sbiadita dell’originale che non interessa a nessuno.
    Soluzione: buttare il flauto e iniziare a studiare sin dalla elementari la musica come cultura.
  4. Dalle Posse alla Trap; dal sociale ai denti d’oro
    Il rap è una delle colonne portanti per la denuncia sociale; Chuck D diceva che “L’hip hop è la CNN degli afroamericani”, ed è stato così per molti anni. In Italia gli anni ’90 ci hanno regalato le Posse e la loro spinta sociale, poi nei 2000 sono arrivati i primi rapper che cantavano allo specchio raccontando la loro vita privata, fino agli attuali Trap-ers (Trap e Rap) dove è tutto un “Io sono più forte di te, più alto di te, più furbo, più ricco, più magro, più bello, più veloce, più moderno e soprattutto spaccio roba più buona” e così via (ah, ovviamente c’è l’immancabile “Io ce l’ho più lungo del tuo”). Il folk è sparito, e il rap inizia a fare dell’onanismo spinto.
    Soluzione: oramai questa generazione 2016 è andata, speriamo che il 2017 porti un po’ di spigoli Grime e una nuova voce comune.
  5. Se i DJ sono i nuovi Messia…
    Lasciamo stare l’EDM e pensiamo ai DJ che riempiono discoteche e stadi. Un loro brano nasce in modi completamente differente da quelli di un cantautore o di un rapper. La loro ‘missione’ è quella di produrre soldi in meno tempo possibile, devono fare le hit, devono far divertire le persone, è sempre stato così. Con questo approccio si tende ad abbassare lo standard del messaggio, a idearne uno universale che faccia solo ballare e innamorarsi. Solo. E’ bellissimo, tutto fantastico chi dice il contrario, tutti vogliamo ballare e innamorarci. Ma poi quando si esce dallo spot dei vari Calvin Harris, Avicii, Kygo, Chainsmokers, Aoki, Solveig e gli altri 8.542 ci si ritrova con una classe politica indecente, infinite tasse da pagare e un paese in recessione.
    Soluzione: Cosmo.

 

 

 

Fabrizio Galassi