Viviamo nell’era in cui il successo e il valore di un musicista vengono giudicati in base alla sua capacità di diventare virale: quanti play totalizza con il singolo appena uscito, quante views raggiunge su Youtube, quanti like ha la sua pagina Facebook.
La validità della proposta artistica è spesso letta in funzione di questi numeri: è molto più facile che un potenziale ascoltatore si avvicini ad un artista con 30.000 like su Facebook rispetto a uno che ne ha solo 300. Non è un caso se gran parte delle nostre notifiche sono costituite da inviti a mettere like a pagine che non conosciamo, spesso di musicisti 2.0 figli del web e delle dinamiche di visibilità e apparenza introdotte dai social network.
È come se si decidesse di riempire di semi un campo, sperando che la natura faccia il proprio corso e porti qualche pianta alla fioritura senza curarne il processo di crescita. Un like equivale ad un ascoltatore potenziale, ma occorre lavorare sulla qualità dei singoli più che sulla quantità del gruppo per trasformarlo in un fan e, di conseguenza, ottenere un riscontro effettivo sul prodotto proposto. Altrimenti, c’è poco da stupirsi se un video con 10.000 visualizzazioni in una settimana si traduce in un concerto con 5 ascoltatori occasionali sotto al palco.

 

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